Seguire un paziente in un percorso alimentare non è sempre facile.
Spesso, è difficile rimanere distaccati dalla situazione del singolo, si instaura sempre un legame ad personam proprio perché facendo dei piani personalizzati inevitabilmente il contatto con il singolo è più prolungato, unico e diverso.
Lavorare nel mondo della nutrizione richiede un impegno di continuo aggiornamento soprattutto quando, entrando nel mondo del lavoro, ti rendi conto che le necessità da soddisfare diventano particolari e/o specifiche.
Lavorare nel mondo della nutrizione richiede fiducia nella scienza degli alimenti ed io ho deciso di darMI fiducia, di credere in quello che ho studiato (e che continuo a studiare), in ciò che imparo con l’esperienza in studio e in ciò che faccio ogni giorno.
Questa fiducia, però, è ancora più fondamentale quando si parla del rapporto paziente – nutrizionista.
È difficile affidarsi completamente a qualcuno, ci si sente un po’ come se si stesse perdendo il controllo di se stessi e del proprio corpo.
Ma NON è così.
Affidarsi vuol dire mettersi in gioco, credere nel professionista e nel percorso che si andrà a fare insieme.
Vuol dire avere pazienza, tantissima pazienza. Vuol dire essere resilienti.
È importante però affidarsi a persone competenti, soprattutto in un mondo in cui lo sport e l’alimentazione sono diventati una prerogativa per fare business, più che uno stimolo per stare bene e in salute.
È importante affidarsi a professionisti che tengano più all’educazione, intesa come un’educazione alimentare, piuttosto che alla compilazione estemporanea di piani, con dei buchi nella giornata, in cui inserire delle “calorie” da mangiare.
Fidarsi del “percorso” vuol dire accettare anche la realtà dei fatti.
Percorso non vuol dire avere un unico obiettivo da raggiungere, ma affrontare piccoli step, cadere e rialzarsi per viversi il durante e costruire una base per quello che sarà l’effettivo viaggio finale: la vita.
Inoltre, il peso ideale, secondo i calcoli matematici del BMI, non sempre coincide con il peso benessere: è necessario che la persona stia bene nel proprio corpo, che si senta se stessa e non un “prodotto di fabbrica”.
Il nostro corpo non è una macchina scientifica: il cibo non è una benzina che se ben collaudata fa funzionare l’organismo esattamente come vogliamo noi. Non sempre con tutti i pazienti funzionano le stesse cose, diversi bisogni vuol dire, ad esempio, anche diversa composizione di un piano alimentare.
Ognuno, infatti, ha un fabbisogno diverso non soltanto per quanto riguarda il famoso “fabbisogno energetico”, bensì di macro e micronutrienti.
Proprio perché non siamo macchine il nostro stato di benessere può essere influenzato da molti fattori: stress, stanchezza, stitichezza e molti altri (tralasciando le situazioni clinicamente compromesse).
A me, infatti, piace l’idea del nostro corpo proprio come un tempio da curare: sana alimentazione come nutrimento di una vita che sia fatta davvero di benessere fisico, ma che vuole per forza prendere per mano anche la salute mentale.
Il cibo deve essere una gioia, per sé stessi e da condividere (convivialità).
Ecco perché nutrirsi per amarsi di più, ecco perché amo il mio lavoro.